L’importanza di un’analisi sociopolitica e psicologica della violenza sulle donne
Sulla violenza di genere e il femminicidio sono stati versati fiumi di inchiostro, ma lo scollamento tra una rappresentazione della donna in larga parte patriarcale e antiquata e il ruolo attivo e importante che un numero sempre maggiore di donne ricopre nella vita reale, non solo facilita ideologicamente un terreno fertile per la violenza, ma rende anche la narrazione stessa della violenza nei media primitiva, stereotipata e sessista.
Mentre la prospettiva sociale e politica è largamente dibattuta, senza dubbio manca, per ottenere una comprensione migliore del fenomeno e per contrastarlo più efficacemente, una discussione psicologica sulle cause della violenza di genere (Straus e Gelles 1992; Dutton 1994).
“La violenza è semplice. Le alternative alla violenza sono complesse” (F. Hacker)
Un’attenta analisi psicologica, al contrario di una superficiale narrazione maschilista o una lettura esclusivamente politica, ben lungi dal giustificare gli atti di violenza o in qualche modo “discolpare” i colpevoli, può essere invece determinante per dare il giusto peso ai segnali di allarme e quindi, nei limiti del possibile, prevenire gli atti di violenza e, sul lungo termine, elaborare strategie vincenti per ridurre e combattere tali azioni violente.
Le due letture esplicative, sociopolitica e psicologica, sono dunque compatibili e integrabili e, anzi, è importante lavorare su entrambi questi aspetti per vincere la battaglia contro la violenza.
Siamo immersi in una cultura dalla struttura linguistico-concettuale maschilista e patriarcale, ma che contemporaneamente rivendica con forza la parità dei sessi e l’emancipazione femminile, creando una sorta di doppio legame o vincolo paragonabile a quello descritto da Bateson nell’esempio della madre che dice al figlio di amarlo ma contemporanemente si irrigidisce al contatto o devia lo sguardo, creando un secondo legame invisibile e contrario derivante dal linguaggio nonverbale e paraverbale non congruenti a quello verbale.
Tale meccanismo è all’origine, nel bambino, di un’incapacità di codifica del tipo di comunicazione veicolata dalla madre e poi, per estensione, della perdita di un criterio di codifica verso la realtà in generale.
Il doppio legame traumatico nelle relazioni
“Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (P. Terenzio Afro)
Nella nostra società il doppio vincolo cui ho accennato si concretizza frequentemente nel fenomeno del sessismo benevolo, caratterizzato da uno slancio apparentemente positivo dell’uomo nei confronti della donna, la quale spesso diventa oggetto di attenzioni e protezione: ma se da un lato queste cure mirano a innalzarla a figura “venerabile”, dall’altro legittimano, e anzi potenziano, una sorta di divario gerarchico tra il maschile e il femminile, relegando la donna implicitamente a un ruolo di subalternità.
In questa direzione vanno letti i comportamenti spesso paternalistici dell’uomo nei confronti della donna, la volontà di preservarla da compiti troppo onerosi e tutti quegli atti da “uomo d’altri tempi” che sottendono un’immagine di donna da proteggere, difendere, controllare.
Nel ciclo di comportamenti relazionali, attribuiti ad un legame traumatico, il “vittimizzatore” impone forti punizioni e poi, dopo aver dato un rinforzo negativo che censura il comportamento “irregolare” della vittima, dismette il comportamento punitivo e si sposta a gratificare la vittima con rinforzi positivi: questo modello di punizioni e rinforzi positivi può costituire una forma particolarmente potente di doppio legame e legittimare così nella vittima la paura di essere feriti o uccisi come reazione a una qualche mancanza, a un qualche atto di sfida o di autonomia o a una non conformità alle regole imposte o previste (“non avresti dovuto farlo”).
Questo legame traumatico si configura come una sorta di «elastico, che nel tempo si estende lontano da chi abusa e, successivamente, torna indietro» (Magaraggia & Cherubini, 2013).
Nella storia del legame traumatico troviamo un altro fattore essenziale alla sua formazione: la gradualità, ovvero l’incremento graduale degli eventi abusivi (Magaraggia & Cherubini, 2013). Questo incremento è simile «ad un lento veleno la cui portata lesiva non può essere percepita nell’immediatezza dei fatti e che coopera con una forma di adattamento, compatibile con la permanenza del rapporto più che con la fuga dal rapporto» (Millon,2004): così, nella storia di questo rapporto troviamo che, soprattutto all’inizio della relazione, gli eventi d’abuso non sono percepiti come un’anomalia e ad essi non viene attribuito inizialmente il carattere di gravità.
Tra le varie teorie vi è quella dell’attaccamento insicuro o disorganizzato (Bowlby, 2000) che si è determinato nella storia infantile e nelle relazioni con le figure parentali e che spiega appunto come si ricerchi a livello non conscio degli schemi relazionali familiari, nel senso esteso di “conosciuti”, anche se negativi.
Le condizioni necessarie al verificarsi di un vincolo traumatico sono dunque due:
una relazione in cui uno dei due abbia una posizione di dominio sull’altro
un livello di abuso che compaia e scompaia cronicamente determinando un rapporto imprevedibile caratterizzato da periodi di comportamenti partecipativi e affettuosi da parte del partner dominante alternati ad episodi di abuso intenso, che possono sfociare poi anche in femminicidio.
La necessità di ribaltare la prospettiva: prevenire curando i carnefici e non solo le vittime
Più si rappresenta la violenza come emergenza più la si può considerare estranea alla nostra «normalità», come un’alluvione: il segno di una pazzia, di una barbarie da allontanare e non un problema che riguarda la nostra società, la nostra cultura. E così, dopo la nostra dose di orrore, commozione o indignazione, possiamo passare ad altro tranquillizzati.
“La violenza è una mancanza di vocabolario” (G.Vigneault)
Ogni volta che un uomo è violento, questa violenza nasce da un sentimento di helplessness, di fragilità, considerata inaccettabile socialmente, alla quale egli cerca di resistere usando la violenza fisica nel vano tentativo di coprire la sua paura e il suo dolore.
La violenza è per molti uomini la conseguenza del tentare di controllare la depressione senza accettarla e deriva da sentimenti di umiliazione sentiti come inaccettabili: spesso queste persone sono cresciute in ambienti violenti, essendo umiliate o maltrattate o minacciate o trascurate gravemente dalle figure di riferimento.
Sul sito della rivista inGenere si trova un elenco dei centri che in Italia si occupano di maschi maltrattanti, quindi sia di “femminicida” che di “sex offenders”: in un articolo intitolato “Smettere si può”, della ricercatrice e scrittrice Giorgia Serughetti, si legge:
La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno, ossia se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti.
Disturbi di personalità e violenza di genere
I disturbi psicopatologici o disturbi mentali possono essere suddivisi in due principali categorie in base all’eziologia: da cause organiche, che determinano disabilità differenti secondo la causa, la zona colpita e la gravità dell’evento, in genere associate a disturbi della percezione, del pensiero, dell’area affettivo-emozionale e del comportamento; da cause non organiche, dunque affezioni in cui non viene identificata una causa riferibile ad alterazioni fisioanatomiche, ma riconducibili a cause psicologiche o ambientali.
A fronte di una tendenza delle donne e degli uomini a essere egualmente conflittuali, la percentuale di crimini da violenza è quasi totalmente a favore dei maschi (90%) rispetto alle donne (questi, naturalmente, costituiscono solo una piccola percentuale della popolazione maschile, infatti l’80% dei maschi non sono violenti, mentre il 12% è violento ogni tanto e l’8% è violento sempre).
Sono questi sottogruppi a cui è necessario prestare attenzione in questa analisi: Edwards et al (2003) hanno dimostrato che vi è una percentuale rilevantemente più alta di disturbi di personalità antisociale (i cosiddetti psicopatici o sociopatici) e disturbi borderline nella popolazione degli assaltatori, intorno all’85% nella popolazione dei sex offenders a fronte di un 15% nella popolazione normale: i disturbi di personalità sono pervasivi, egosintonici (la persona non pensa di avere il disturbo) e alloplastici (la persona tenta di modificare e controllare l’ambiente intorno a lui e non se stesso), connotati da distorsioni cognitive inconsapevoli, disimpegno morale e meccanismi di difesa primitivi come identificazione proiettiva e scissione.
La genesi familiare dei disturbi di personalità
“Solo i deboli commettono crimini: chi è potente e chi è felice non ne ha bisogno” (Voltaire)
La violenza dei disturbi di personalità nasce nelle famiglie: la violenza intra-familiare, la violenza di genitori a loro volta maltrattati e che divengono maltrattanti è all’origine di gran parte dei comportamenti violenti dei nostri pazienti e va affrontata come un grave problema relativo al benessere mentale e alla prevenzione dei disagi che ha risvolti sociali importanti.
La personalità è una combinazione di pensieri, emozioni e comportamenti che rendono ogni persona unica: è il suo modo di vedere, comprendere e relazionarsi con il mondo esterno, così come pure il modo in cui vede se stessa.
La personalità inizia a formarsi durante l’infanzia, attraverso l’interazione tra fattori ereditari e ambientali: nello sviluppo normale, i bambini imparano con il tempo a interpretare con precisione i segnali sociali e a rispondere in modo appropriato, diversamente è possibile che si generi un disturbo della personalità, caratterizzato da quattro principali caratteristiche:
- Pensiero distorto
- Risposte emotive problematiche
- Eccessiva o ridotta regolazione degli impulsi
- Difficoltà interpersonali: “Bambini maltrattati sviluppano maggiore dipendenza dai genitori abusanti e tendono a riprodurre i rapporti di maltrattamento nell’età adulta” (Otto Kernberg).
È ormai conoscenza comune e asseverata che se un bambino o una bambina assistono a violenza sistematica da parte di un genitore verso l’altro genitore o verso un fratello o se essi stessi subiscono violenza, sarà “normale”, nel senso di molto frequente, che poi utilizzino la violenza quando si trovano in condizioni di stress, fattore che rinomatamente “scompensa” e slatentizza i sintomi di una psicopatologia (Straus, 1998) .
Se tratto male mio figlio gli insegno che di fronte a problemi complessi, a minacce di abbandono e difficoltà egli si sentirà impotente e maltratterà come risposta a questa frustrazione, spesso donne o comunque qualcuno percepito come più debole (meccanismo legato anche al bullismo, alla violenza sulle persone lgbt e sulle minoranze etniche).
Bambini violenti diventano uomini violenti, madri che accettano che il figlio assista alle botte che prende dal marito lo mettono in contatto con la violenza come qualcosa di accettabile e “normale”, donne che lasciano che il terrore le blocchi nella difesa dei figli dalla violenza del padre o di altre figure passano il testimone della violenza alla generazione successiva.
Vittime e carnefici: non esiste l’uno senza l’altro
Da un punto di vista psicologico è però anche importante guardare alle donne, che se in alcuni casi riescono a uscire da relazioni violente e a denunciarle, in molti altri non fuggono da uomini violenti, non si proteggono, non leggono segnali preliminari che c’erano stati, spesso estremamente chiari. Donne che accettano la compagnia di uomini violenti sviluppano molto frequentemente nei loro confronti una relazione di dipendenza e la dipendenza femminile da uomini violenti ha origine in contesti familiari nei quali la violenza e la prepotenza maschile è accettata o tollerata o considerata “normale”: le ragazze che hanno padri violenti rischiano di divenire vittime di uomini violenti, andando a ricercare in modo non consapevole proprio quella tipologia di partner (Norwood).
L’elaborazione delle proprie emozioni può essere un cammino lunghissimo, inedito per molti adulti soprattutto se uomini, non abituati nemmeno a immaginare la realtà oltre che la legittimità di un’autonomia femminile, mostruosa e inaccettabile agli occhi dei maschi che hanno bisogno di credersi forti e non tollerano la frustrazione di sentirsi limitati o impotenti.
I sex offenders come paria della società
Marina Valcarenghi, psichiatra milanese, racconta nel libro “Ho paura di me” la propria esperienza clinica ormai ventennale, mostrando come i molestatori, i sex offenders e i maschi violenti non suscitano l’interesse di nessuno, né dei politici, né dei medici, né dei formatori, né dei criminologi: è come se fossero dei paria della società.
Nelle carceri sono i detenuti a maggior rischio di violenza da parte degli altri rei.
Perché mai dunque un uomo dovrebbe confessare pulsioni pedofile o un istinto violento, venendo in tal modo condannato per sempre?
E infatti non accade, perciò quest’uomo, invece di tentare di capire come trasformare il suo istinto violento in altro, si abbandonerà ad esso come se non fosse artefice e responsabile delle proprie azioni: dall’immaginare violenze sulle donne o anche sui bambini, cercando di reprimere i propri istinti e cercando di negare una parte di sé ferita, passerà a compierle concretamente.
Pure in assenza di denominatori comuni tra questi comportamenti violenti, intesi come fattori unicausali, occorre agire contemporaneamente sia su un piano individuale sia su uno collettivo, a livello biopsicosociale.
E quindi il miglior modo per contrastare la violenza di genere è partire dal welfare state: per esempio la scuola, dall’asilo nido in poi, può rivelarsi un fattore protettivo rispetto alle patologie famigliari di oggi, e domani può diventare il luogo dove intercettare ragazzi che stanno sviluppando istinti violenti; inoltre la figura dello psicologo di base in affiancamento al medico di base sarebbe auspicabile proprio in un’ottica si comunità.
Di fronte a una società in cui le famiglie si vanno nuclearizzando, la psicoterapia non può essere solo appannaggio di una classe sociale che se lo può permettere e questo significa immaginare una società futura dove crescere dei cittadini responsabili e non solo uno stato che, in assenza di una cultura della relazione, cerca come può di proteggere le vittime.
È importante dunque prevenire soprattutto a livello psicologico tali atti di violenza educando sia le donne a riconoscere le situazioni rischiose, non sottovalutando alcun segnale di violenza ma prendendolo in considerazione ed interpretandolo come messaggio prezioso per considerare quella relazione come dannosa, che espone ad un rischio, poiché un uomo violento non può cambiare da solo con l’amore di una donna, non è curabile altro che con la conquista della consapevolezza del proprio problema e il doloroso passaggio attraverso una buona psicoterapia.
Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute è spesso citato il concetto di “incapacità appresa” (De Pasquali, 2009): secondo questa teoria, chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile.
Uno studio sperimentale condotto da Martin Seligman nel 1967 (Musumeci, 2012) ha dimostrato che il cane che viene rinchiuso in una gabbia e a cui viene somministrata una scossa elettrica, dopo ripetuti tentativi di fuggire sempre frustrati dal fatto che la gabbia non consente all’animale la fuga, rinunceranno a cercare di sottrarsi anche una volta che venga loro mostrato che la gabbia è stata aperta: gli esseri umani si comportano in modo analogo, l’addestramento alla rinuncia e la rassegnazione risulta simile.
Tra i motivi per cui tali donne non si sottraggono alla violenza, che sfocia poi spesso in femminicidio, c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative e dato che gli abusanti lo sanno bene, spesso l’isolamento e la minaccio o il ricatto economico sono forme di abuso abitualmente praticate.
Identikit dell’uomo maltrattante
I soggetti che maltrattano e abusano cercano di compensare la propria modesta autostima e la loro profonda ferita narcisitica, ma talora dimostrano veri e propri sintomi psicopatologici, ossia dinamiche in cui il rapporto si gioca sul duplice piano della fusionalità e della relazione dominante/dominato, in cui il soggetto è coinvolto in un rapporto che ha assunto per lui significato totalizzante: l’altro è così importante o “invadente” da essere ormai parte della vita e dell’identità stessa dell’attore.
Isabella Betsos (Betsos, 2009) distingue alcune tipologie di uomo abusante:
I narcisisti, che hanno necessità di continua ammirazione, sono insofferenti alle critiche, indifferenti alle esigenze altrui, risultano inclini a sfruttare gli altri e hanno la tendenza ad attribuire a questi ultimi la responsabilità di quanto di negativo capita loro. Questi soggetti si nutrono dello sguardo altrui, e più che di amore necessitano di ammirazione e di attenzione continua; nella coppia, sono dominatori e attraenti e cercano di sottomettere e isolare la compagna.
Il narcisista cerca la fusione e ha bisogno di fagocitare l’altro.
I soggetti con “disturbo antisociale di personalità”, in passato denominati psicopatici e sociopatici: essi soffrono di un disturbo di personalità caratterizzato principalmente da inosservanza e violazione dei diritti degli altri, la messa in atto di azioni eteroaggressive; le persone con questo disturbo, infatti, non riescono a conformarsi né alla legge, per cui compiono atti illegali, come ad esempio distruggere proprietà, truffare, rubare, né alle norme sociali, per cui attuano comportamenti immorali e manipolativi, quali il mentire, il simulare, l’usare false identità, traendone profitto o piacere personale.
Elemento distintivo del disturbo è, inoltre, lo scarso rimorso mostrato per le conseguenze delle proprie azioni, per cui i soggetti con disturbo antisociale di personalità, dopo aver danneggiato qualcuno, possono restare emotivamente indifferenti o fornire spiegazioni superficiali dell’accaduto.
Altre caratteristiche rilevanti del disturbo antisociale sono l’impulsività e l’aggressività.
La prevalenza del disturbo antisociale di personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e l’1% nelle femmine.
Gli individui che presentano un “disturbo borderline di personalità” (DBP): tale quadro psicopatologico è caratterizzato da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri.
Gli individui con disturbo borderline della personalità possono esperire sensazioni di vuoto interiore, elevata irritabilità e attacchi di collera; vi può essere il ricorso ad alcol e droghe o a comportamenti autolesivi per ridurre la tensione emotiva. I soggetti con disturbo borderline presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione: possono, ad esempio, dividere il genere umano in “totalmente buoni” e “totalmente cattivi”.
I rapporti iniziano generalmente con l’idea che l’altro, il partner o un amico, sia perfetto, completamente e costantemente protettivo, affidabile, disponibile, buono: ma è sufficiente un errore, una critica o una disattenzione, che l’altro viene catalogato repentinamente nel modo opposto: minaccioso, ingannevole, disonesto, malevolo: in molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline.
I perversi narcisisti, allo stesso tempo più controllati e controllori, che però esercitano il controllo non attraverso la violenza brutale, bensì per mezzo del plagio e della menzogna.
Le personalità paranoiche, coloro che hanno una visione rigida del mondo in generale e dei ruoli dell’uomo e della donna in particolare, fino ad essere veri e propri tiranni domestici secondo i quali la donna dev’essere sottomessa, non deve prendere decisioni, né essere autonoma, coltivare interessi, tanto meno frequentare altre persone, magari neppure i familiari. Costantemente sospettosi e diffidenti, temono complotti ai loro danni anche da parte del coniuge, e la loro gelosia talora sfocia nella patologia vera e propria. Il loro atteggiamento allontana la partner, cosicché essi si sentono autorizzati a ritenersi nel giusto lamentando il disamore di questa.
Se minacciati di abbandono o abbandonati nell’ipotesi migliore metteranno in atto comportamenti di stalking, pur non giungendo all’uxoricidio.
Costanzo (2003) individua nella gelosia il movente dell’uxoricidio e del femminicidio, distingue una “gelosia di tipo competitivo” di quei soggetti che soffrono per aver perduto l’oggetto d’amore ma insieme sentono la perdita come una diminuzione della propria autostima, per i quali l’amore si fonda sulla dipendenza, e che sono incapaci di amore autentico perché tesi al soddisfacimento dei propri bisogni narcisistici, da un secondo tipo di uxoricidi per «gelosia di tipo proiettivo», i quali riversano sul coniuge i propri desideri non riconosciuti di infedeltà, infatti spesso sono loro che tradiscono.
Barner e Carney, in un excursus storico sullo sviluppo dei programmi per uomini violenti negli Stati Uniti, affermano che a partire dalla fine degli anni settanta le case rifugio per le donne hanno cambiato la loro strategia di aiuto passando da un ‘intervento d’emergenza e primario per le vittime’ ad una ricerca attiva di collaborazioni sul territorio con altri servizi per fornire loro migliori opportunità di empowerment all’interno della situazione di violenza con l’obiettivo della prevenzione della recidiva e lo sviluppo di un approccio di comunità.
Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema.
Ma non è l’anno zero, e auspicare vagamente una presa di coscienza dei maschi italiani sessisti significa non fare tesoro delle analisi e dei risultati di chi ha cominciato a interrogarsi sul metodo oltre che sul merito della questione, e ha elaborato per esempio i programmi di training in Scozia (il programma Change) e in Catalogna (il programma Contexto).
Stefano Ciccone dell’associazione Maschile plurale lo conferma:
“L’attenzione è cambiata, o meglio sta cambiando, ma è il contesto stesso che va ripensato.
Occorre individuare i comportamenti violenti e per questo servono formazione e capacità di distinguere questi comportamenti all’interno di una cultura che è profondamente condivisa, per cui il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità.
Si passa da ‘io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione’ alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: ‘Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei’, oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: ‘È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato’.
Il rovesciamento è pieno.
Continua Ciccone: “Il sentimento di questi uomini nei confronti delle donne è di puro rancore: le donne sono descritte come false, opportuniste, manipolatorie.
‘Io sono la vittima, io sono onesto, io sono trasparente’”.
Nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione:“È lei che mi ha provocato”, dice lui.
E spesso le vittime della violenza maschile sono le donne più autonome, che magari hanno cominciato la relazione in un momento di debolezza (la morte di un genitore, un periodo di depressione), incastrate in una relazione di dipendenza e nel momento in cui riacquistano autonomia sono percepite come traditrici, minacciose, ostili.
Riuscire ad avviare un percorso di psicoterapia serio con maschi violenti, stalker, stupratori, pedofili, assassini non è per niente semplice: oltre alla mancanza di strutture esiste uno stigma sociale molto duro (pensiamo alle dinamiche delle carceri), ma anche non di rado tra gli stessi terapeuti, che alle volte esitano a prendere in carico questo tipo di pazienti”.